Matteo Rosa racconta sinteticamente l’evoluzione del tema diversity vissuto nel contesto aziendale. Compiendo un confronto tra la cultura dominante dell’omologazione e quella subalterna della diversità mette in risalto i punti di forza ed i vantaggi di quest’ultima; direzione su cui si stanno muovendo oggigiorno le aziende che vogliono rimanere competitive sul mercato, dominato da variabilità e cambiamenti repentini. Grazie ad impegno, curiosità, sospensione del giudizio e rottura di stereotipi e pregiudizi, si possono creare ambienti congeniali dove liberare e far esprimere al meglio tutte le potenzialità dei lavoratori.
Fino a qualche anno fa le aziende tendevano a uniformare, più che differenziare i dipendenti. In un mondo produttivo tayloristico, dove pochi lavoravano col cervello e molti solo con le braccia, l’uniformità – vera o presunta – rendeva più semplice l’operatività e il controllo.
Poi le cose cominciarono a cambiare: invece di tanti omini in tuta o in cravatta, nelle aziende iniziarono ad entrare le donne, poi gli immigrati da Paesi lontani. E invece di lavorare solo con le braccia si è dovuto usare sempre di più il cervello, per tenere il ritmo dei cambiamenti esterni sempre più incalzanti. I tradizionali ruoli aziendali furono rimescolati.
Per un po’ le aziende fecero finta di niente, perché riconoscere la diversità è difficile, complica la vita. Poi le donne cominciarono a chiedersi perché mai dovevano essere pagate meno, se facevano lo stesso lavoro degli uomini, e perché non riuscivano mai a diventare AD. La diversità era diventata un problema. Gli anziani si chiedevano perché l’azienda a un certo punto sembrasse essersi dimenticata di loro. Chi aveva una disabilità perché mai non poteva diventare dirigente. I neri, cos’avevano di speciale per poter fare solo i magazzinieri. E così via…
Il problema non era di facile soluzione. Le aziende e il legislatore ne provarono di tutte. Azioni positive, pari opportunità, quote, campagne di sensibilizzazione.
Poco a poco, però, le aziende più intelligenti hanno cominciato a rendersi conto che la diversità nella composizione della forza-lavoro potrebbe portare dei vantaggi. In un contesto variabile, incerto, complesso, ambiguo come è quello in cui viviamo, avere una molteplicità di punti di vista, di competenze, di valori, di esperienze, di storie, di contatti, permette di essere pronti, veloci e flessibili nel rispondere ai mutamenti, e persino nel generarli.
Oggi la valorizzazione della diversity non è più solo una questione di giustizia sociale o di etica manageriale: è una pratica indispensabile per le aziende che vogliono mantenersi competitive.
Così, invece di promuovere l’uniformità, queste aziende tendono a promuovere la diversità favorendo l’emersione delle differenze. E non più solo di genere, età, abilità, provenienza geografica, com’era all’inizio. Una buona pratica della diversity promuove e valorizza ogni differenza: dall’orientamento sessuale alle scelte alimentari, dal percorso di studi al contratto psicologico che lega lavoratore e azienda.
Quali vantaggi ne traggono le parti? Il lavoratore si trova in un ambiente più congeniale, dove può raccontare e soddisfare (quasi) tutte le sue aspettative e nel contempo esprimere tutte le sue potenzialità. L’azienda migliora la capacità di attrarre personale qualificato, il clima aziendale, la retention… ma soprattutto moltiplica competenze, flessibilità, innovazione, vicinanza al cliente. Insomma, è una prospettiva win-win.
Naturalmente, il mondo reale della diversity è ancora molto meno idilliaco della situazione ideale appena descritta. Le discriminazioni restano, i privilegi tengono duro, il conformismo è ben blindato – ma in molti ci stanno lavorando e la situazione cambia velocemente.
La pratica della diversity in aziende segue sostanzialmente due strade. Una, il Diversity management, riguarda i sistemi e i processi fondamentali della gestione del personale. Rende diversificanti e rispettosi delle differenze il recruiting, la compensation, i percorsi di carriera, la valutazione, eccetera. Lavoro per i manager.
L’altra strada, quella più interessante e feconda, coinvolge invece tutto il personale, con l’obiettivo di diventare sempre più capaci di lavorare apprezzando il contributo apportato dalle differenze.
Il problema è che il diverso può magari anche essere interessante, ma poi a tutti viene naturale lavorare meglio con i propri simili, e soffrire i diversi. Questo atteggiamento, per quanto naturale, induce però all’omologazione – cioè alla repressione di tutto ciò che non appartiene alla cultura dominante – e non alla differenziazione. Sono spesso comportamenti inconsapevoli, a volte paradossalmente generati dalla buona volontà, ma nondimeno generatori di sameness e non di diversity.
Per far funzionare la diversity, farla fiorire, e trarne tutti i possibili vantaggi, personali e aziendali, bisogna allora metterci un po’ d’impegno. Allenare la curiosità, sospendere il giudizio, affrontare stereotipi e pregiudizi (anche i propri!), sperimentare, e correre qualche rischio. Anche, tirare fuori il capino e mostrare a tutti la mia differenza. Scoprire come le differenze possono fare la differenza.
Di Matteo Rosa
per The Coachingroup